È sempre difficile definire un ambito creativo nel momento in cui è vivo, in continuo movimento. Si possono individuare delle traiettorie, delle prospettive.
La screendance è una forma d’arte che lavora su una sfida complessa e affascinante: trasformare un evento coreografico, fatto di corpi che hanno un peso, che fanno rumore sul legno di un palco teatrale, insomma “un oggetto” estremamente fisico, in immagini in movimento, qualcosa di immateriale, invisibile come una nuvola di dati.
Da qui sorge una domanda: perché? Dove risiede la necessità di trasformare alchemicamente una sostanza solida in una gassosa? Molti danzatori, coreografi, registi, videoartisti, artisti multimediali, animatori e graphic designer digitali, attraversando la storia del cinema, dell’animazione, della Videoarte, dei Music Video, dei Fashion Film, della computer graphics, della New Media Art e di tutto il panorama digitale contemporaneo, hanno risposto creando un vero e proprio linguaggio che pervade tutto l’ambito produttivo audiovisivo contemporaneo.
La definizione più lucida della screendance è il titolo di un’opera, realizzata nel 1945 da Maya Deren e Talley Beatty, fondamentale per questo genere: A Study in Choreography for Camera.1 Una “coreografia per la camera”, ovvero la cinepresa, la telecamera, la camera virtuale di un ambiente digitale. “Fatta apposta per…” la trasformazione da corporeo a inorganico. Maya Deren elabora elementi stilistici che faranno scuola: la prossimità (uno spettatore a teatro non può vedere i dettagli del corpo del performer); il montaggio che, mantenendo la continuità della coreografia, catapulta il danzatore in ambienti diversi; la scelta degli spazi: il corpo può attraversare indifferentemente luoghi naturali, architettonici, domestici, evitando sistematicamente il palco teatrale; infine lo slow-motion.
La screendance è tutto ciò che di un evento coreografico non può accadere su un palco teatrale; ed è tutto ciò che di un evento coreografico lo spettatore teatrale non può vedere con i suoi occhi. È il superamento dei limiti del corpo del performer, dello spazio in cui agisce, e dello sguardo dello spettatore, potenziati dalla tecnologia, la vera “seconda performer” con la quale il corpo reale duetta creando simbiosi, incontri, scontri, inaspettate fusioni, incroci avventurosi. Il corpo e la macchina, uniti dal movimento, in perenne reciproca metamorfosi.
Prima che la screendance trovi la sua collocazione come genere autonomo all’interno della storia del cinema sperimentale, grazie alle opere di Maya Deren, una sua versione primordiale è presente già agli esordi della storia del cinema, quando la figura umana, soprattutto quella della danzatrice, conquista lo schermo, come testimoniano le varie documentazioni delle Serpentine Dance di Marie Louise Fuller, interpretate dalle sue epigoni sparse in giro per il mondo. Eventi coreografici già di per sé contaminati da un forte impianto visivo gestito dalla illuminotecnica e da un costume-protesi che potenzia i movimenti del corpo.
Non è un caso, perché quando l’immagine fotografica scopre il divenire del tempo, cerca il movimento in tutte le cose, e il primo “oggetto” al quale si rivolge è proprio il corpo. E quale corpo è il più addestrato al movimento e alla gestione del tempo, se non quello del danzatore o della danzatrice?
La fascinazione nei confronti della danza da parte del cinema sperimentale degli esordi si manifesta già, e in maniera piuttosto sorprendente, in quel genere radicale che vuole demolire una volta per tutte il senso di realtà della messa in scena e scelte narrative superate: l’astrazione in movimento, rappresentato da ex-pittori tedeschi che definiscono il loro cinema Absolute Film. Oskar Fischinger, uno dei più lucidi e longevi autori di cinema astratto, attivo fra la metà degli anni Venti del secolo scorso fino agli anni Sessanta, nel momento in cui vuole definire la sua estetica usa varie suggestioni, come “la danza delle forme” o “una danza animata”. Le sue linee sottili bianche su sfondo nero vengono interpretate dal suo autore come una coreografia di elementi astratti in movimento.
Due grandi animatori come Len Lye e Norman McLaren prendono in considerazione le parole del loro maestro, ponendosi una domanda: per fare un’avanguardia cinematografica radicale l’unica soluzione è produrre immagini astratte? Len Lye nel 1936, in Rainbow Dance,2 inserisce all’interno delle sue architetture visive un danzatore che diventa una silhouette bidimensionale che contiene immagini astratte e che di fisico conserva ben poco, mentre Norman McLaren nel 1968, in Pas de deux,3 trasforma in immagini geometriche un duo di danza classica. Dalla definizione del cinema astratto come “danza di forme in movimento”, fino alla trasformazione della danza in forme astratte in movimento, sembrerebbe che il cerchio si chiuda.
E invece se ne aprono molti altri. Nella prima raccolta di opere di videoarte degli esordi, il programma televisivo The Medium is the Medium, del 1969, compare già un’opera di videodanza: Capriccio di James Seawright.4 I primi videoartisti produrranno fin da subito opere di videodanza, collaborando con i coreografi di quegli anni: Charles Atlas e Nam June Paik con Merce Cunningham, oppure Ed Emshwiller con Alwin Nikolais e Carolyn Carlson. Per Seawright i corpi delle danzatrici diventano flussi di energia ipercinetica, per Nam June Paik e Ed Emshwiller il chroma-key diventa il secondo “performer elettronico” in grado di riconfigurare il rapporto fra il corpo e lo spazio.
All’interno della storia della computer grafica sperimentale si verifica lo stesso processo: durante gli anni Sessanta autori come John Whitney lavorano su immagini astratte, fino a quando Rebecca Allen, pioniera della rappresentazione del corpo umano in computer grafica 3D, realizza nel 1982, per lo spettacolo di danza The Catherine Wheel di Twyla Tharp,5 un corpo femminile fatto di linee geometriche bianche: la cosiddetta “animazione a fil di ferro”, anche in questo caso un affascinante connubio fra la figura del corpo e l’immaginario astratto.
In definitiva, la screendance rende visibile ciò che nella coreografia fisica non lo è: da un lato rende immateriale il corpo, dall’altro trasforma in immagine ciò che lo spettatore a teatro non può vedere, creando una nuova coreografia, nuovi corpi, nuovi spazi, frutto della simbiosi fra realtà fisica e macchina tecnologica.
Note:
1https://www.moma.org/collection/works/302825
2https://www.lenlyefoundation.com/films/rainbow-dance/24/
4http://vimeo.com/189157088. Il video parte al minuto 02’03’’, ed è datato erroneamente nel 1968.
5https://www.rebeccaallen.com/projects/catherine-wheel
(Questo testo è in lingua originale).
Letture suggerite:
Elisa Vaccarino, La musa dello schermo freddo. Videodanza, computer e robot, Costa&Nolan, Genova, 1996.
Vito Di Bernardi, Letizia Gioia Monda (a cura di), Immaginare la danza. Corpi e visioni nell’era digitale, Massimiliano Piretti Editore, Bologna, 2018.
Alessandro Amaducci, Screendance. Sperimentazioni visive intorno al corpo tra film, video e computer grafica, Ed. Kaplan, Torino, 2020.
Elena Cervellati, Silvia Garzarella (a cura di), Danza, schermi e visori. Contaminazioni coreografiche nella scena italiana, Dino Audino Editore, Roma, 2024.
Archivi video online gratuiti suggeriti:
https://www.nowness.com/topic/dance
https://directorsnotes.com/tag/dance/
https://www.ubu.com/dance/index.html
https://www.dancefilmmaking.com/films
https://numeridanse.com/en/publication/category/dance-films/
Biografia:
Alessandro Amaducci, videoartista, regista di videoclip musicali, realizzatore di spettacoli multimediali, di scenografie elettroniche per spettacoli di danza e di videoinstallazioni. Ha pubblicato una serie di libri sull’estetica e la tecnica delle immagini elettroniche e digitali, e insegna presso il Dams di Torino. Vive e lavora a Torino.
https://www.alessandroamaducci.com/
English version by the editorial team:
Screendance: The visible and the invisible of dance
by Alessandro Amaducci
It is always difficult to define a creative field when it is alive, in constant motion. One can identify trajectories, perspectives.
Screendance is an art form that engages with a complex and fascinating challenge: transforming a choreographic event—composed of bodies with weight, making noise on the wooden stage of a theater, in short, an extremely physical object—into moving images, something immaterial, invisible, like a cloud of data.
This raises a question: why? Where does the need arise to alchemically transform a solid substance into a gaseous one? Many dancers, choreographers, directors, video artists, multimedia artists, animators, and digital graphic designers, moving through the history of cinema, animation, Video Art, Music Videos, Fashion Films, computer graphics, New Media Art, and the entire contemporary digital landscape, have answered by creating a true language that permeates the entire contemporary audiovisual production field.
The clearest definition of screendance is the title of a seminal work from 1945 by Maya Deren and Talley Beatty: A Study in Choreography for Camera.1 A “choreography for the camera”—that is, the film camera, the video camera, the virtual camera of a digital environment. ‘Made specifically for…’ the transformation from corporeal to inorganic. Maya Deren developed stylistic elements that would become foundational: proximity (a theater spectator cannot see the details of a performer’s body); editing that, while maintaining the continuity of the choreography, catapults the dancer into different environments; the choice of spaces: the body can move seamlessly between natural, architectural, and domestic settings, systematically avoiding the theatrical stage; and finally, slow motion.
Screendance is everything that, in a choreographic event, cannot happen on a theater stage; and it is everything that a theatrical audience cannot see with their own eyes, during a choreographic event. It surpasses the limits of the performer's body, the space in which they act, and the spectator’s gaze—enhanced by technology, the true “second performer” with which the real body engages in a duet, creating symbiosis, encounters, clashes, unexpected fusions, and adventurous crossings. The body and the machine, united by movement, in a perpetual reciprocal metamorphosis.
Before screendance found its place as an autonomous genre within the history of experimental cinema, thanks to Maya Deren’s works, a primordial version of it was already present at the dawn of cinema history, when the human figure, especially that of the dancer, conquered the screen. This is evidenced by various recordings of Marie Louise Fuller’s Serpentine Dance, performed by her followers around the world. These choreographic events were already infused with a strong visual component, enhanced by lighting techniques and a costume-prosthesis that amplified the body’s movements.
This is no coincidence: because when photographic imagery discovered the passage of time, it sought movement in everything, and the first object it turned to was the human body. And what body is more trained in movement and the management of time than that of a dancer?
The fascination with dance in early experimental cinema manifests itself—quite surprisingly—in a radical genre that sought to demolish traditional storytelling and outdated staging conventions: abstraction in motion, developed by former German painters who defined their work as Absolute Film. Oskar Fischinger, one of the most lucid and enduring authors of abstract cinema, active from the mid-1920s to the 1960s, described his aesthetic in various ways, such as “the dance of forms” or “an animated dance.” His thin white lines on a black background were interpreted by the author as a choreography of abstract elements in motion.
Two great animators, Len Lye and Norman McLaren, considered their master's words and posed a question: is abstract imagery the only way to create radical avant-garde cinema? In Rainbow Dance (1936),2 Len Lye incorporated a dancer within his visual architectures, transforming him into a two-dimensional silhouette containing abstract images, retaining little of his physical form. In Pas de Deux (1968),3 Norman McLaren transformed a classical dance duo into geometric images. From the definition of abstract cinema as “a dance of moving forms” to the transformation of dance into abstract moving forms, it would seem that the circle is complete.
And yet, many more circles open. In the first collection of early video art works, the 1969 television program The Medium is the Medium, there was already a videodance piece: Capriccio by James Seawright.4 From the outset, video artists created videodance works, collaborating with choreographers of the time: Charles Atlas and Nam June Paik with Merce Cunningham, or Ed Emshwiller with Alwin Nikolais and Carolyn Carlson. For Seawright, the dancers' bodies became flows of hyperkinetic energy; for Nam June Paik and Ed Emshwiller, the chroma key became the second “electronic performer,” capable of reshaping the relationship between body and space.
A similar process unfolded in the history of experimental computer graphics. In the 1960s, artists like John Whitney worked with abstract imagery until, in 1982, Rebecca Allen—a pioneer in 3D computer-generated human representation—created a female figure made of white geometric lines (so-called “wireframe animation”) for Twyla Tharp’s dance performance The Catherine Wheel.5 Once again, this was a fascinating fusion of the human form with abstract imagery.
Ultimately, screendance makes visible what is not in physical choreography: on one hand, it dematerializes the body; on the other, it transforms into images that the theater audience cannot see. It creates new choreography, new bodies, and new spaces, born from the symbiosis between physical reality and technological machinery.
Notes:
1https://www.moma.org/collection/works/302825
2https://www.lenlyefoundation.com/films/rainbow-dance/24/
4http://vimeo.com/189157088. The video starts at 02'03'', and is incorrectly dated 1968.
5https://www.rebeccaallen.com/projects/catherine-wheel
Suggested Readings:
Elisa Vaccarino, La musa dello schermo freddo. Videodanza, computer e robot, Costa&Nolan, Genova, 1996.
Vito Di Bernardi, Letizia Gioia Monda (a cura di), Immaginare la danza. Corpi e visioni nell’era digitale, Massimiliano Piretti Editore, Bologna, 2018.
Alessandro Amaducci, Screendance. Sperimentazioni visive intorno al corpo tra film, video e computer grafica, Ed. Kaplan, Torino, 2020.
Elena Cervellati, Silvia Garzarella (a cura di), Danza, schermi e visori. Contaminazioni coreografiche nella scena italiana, Dino Audino Editore, Roma, 2024.
Suggested Free online video archives:
https://www.nowness.com/topic/dance
https://directorsnotes.com/tag/dance/
https://www.ubu.com/dance/index.html
https://www.dancefilmmaking.com/films
https://numeridanse.com/en/publication/category/dance-films/
Biography:
Alessandro Amaducci, video artist, director of music videos, creator of multimedia performances, electronic stage designs for dance shows, and video installations. He has published various books on the aesthetics and techniques of electronic and digital images and teaches at the Dams of Turin. He lives and works in Turin. https://www.alessandroamaducci.com/